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racconti
Millenovecentonovantasei. Pioviggina. Gigetto rientra a palazzo Celsi, dove vive. Porta sottobraccio qualche ramo, bastoni troncati in qualche forra lì attorno, forse è legno di un rampicante: edera. Ha con sé anche una busta di nylon, celeste, piena di roba pesante, forse sassi. Scendendo giù per il ciottolato di via Garibaldi, quella lunga via stretta gli dà alla gola. È un serpente che si snoda fin giù, fino alla coda del paese, paese dal nome del serpente, Nepa, Nepete, Nepet, giù, fin dove non si può proseguire, a meno di avventurarsi per ripidi sentieri e infilare lo sguardo in panorami d’altri tempi, aspri, affascinanti, antichi, selvaggi, rupestri… Lui ci abita in mezzo, a quella lunga via stretta, e per arrivare al tepore del suo nido deve camminarci dentro, soffocato ora dalla fatiscenza di una cortina di vecchie finestre un po’ malconce, osservato poi dallo sguardo incuriosito di qualche vecchietta fuori dall’uscio, folgorato dal dettaglio di un palazzetto che non aveva mai notato prima d’ora, nonostante ci sia cresciuto, qui, tra questi vicoli. Eppure c’è sempre un angolo nuovo da scoprire, sempre un regalo che dal passato, da uno dei tanti passati che appartengono a questo posto, torna come un’epifania rendendogli l’omaggio di una visita inaspettata. Cammina con passo flemmatico ma incessante, un piede dopo l’altro, oggi come sempre, mai una corsa, mai una procrastinata lentezza, ma il ritmo puntuale e sereno dell’incedere dei suoi passi, così, uno dopo l’altro, con il carico di legni o senza, d’estate o d’inverno, con il carico di idee o svuotato pure nell’immaginazione: non importa, il ritmo è sempre quello, uno, e sa, tra mille incertezze, dove deve andare. Guarda la scarpa, può reggere ancora una stagione, aggiusta un po’ il berretto verde scuro, acconcia meglio la sciarpa beige, spazzola col palmo di una mano dal garbo della piega dei suoi pantaloni di velluto marrone a coste quel poco di residuo di terriccio della passeggiata, tono di colore su tono, ma quella polvere si vede e va levata, mentre con l’altra mano sostiene il peso della busta incorniciando i rami sottobraccio. Gigi ha indosso i colori dei suoi boschi, della sua terra, e in testa le immagini di Melbourne, l’amore ricordo del suo amore perduto, della sua infanzia lasciata ai giochi degli altri. È un po’ come se questi mondi se li portasse dietro, cuciti addosso ai suoi pensieri come una cuccia a una bestia di campagna, libera quando vuole, legata a un padrone quando ne senta il bisogno. Una spinta con la punta del piede al portoncino ricavato nel grande portone di palazzo Celsi e Gigi è dentro, nell’androne di san pietrini e volte a botte. La busta a terra. Non sono proprio sassi, sembrano più pietre antropomorfe, resti di antiche vestigia, tracce di un mondo remoto. Sistema i legni tentando di dargli un ordine, crescente, dal più piccolo al più grande: “guarda questo, sembra una ballerina, e quest’altro, che bello! Pare una scultura di Giacometti. È proprio vero, non si inventa niente, tutto è già nella natura, intorno a noi. Toh, guarda, avevo lasciato qui l’ombrello. Lo butto, per quello che serve, tanto è mezzo sfasciato. Che bei disegni però sulla stoffa! No. Ci faccio qualcosa, anzi lo prendo subito, magari il cappello di una lampada, con questo ramo qui. Sì, stanno proprio bene insieme. Sembrano fatti uno per l’altra”, pensa. I legni, in ordine, sottobraccio, in una mano l’ombrello, nell’altra i sassi, e via di nuovo. Qualche metro, poi a sinistra, su per le antiche scale. Alla sua dimora si accede dal primo pianerottolo, che non è un mezzanino ma lo sembra, l’ingresso della sua tana è dopo il secondo, piano nobile, il suo studio ancora una rampa più su, tra le polveri e il ciarpame delle soffitte, dalla parte opposta della colombaia, la dispensa dei signori del ‘500, il ricovero per i piccioni di oggi, che quassù entrano dappertutto, e dappertutto lasciano tracce del loro passaggio. Ma nello studio no. Nello studio c’è una cornacchia zoppa che li tiene lontani. Lì, lei è la padrona di casa. Sente Gigetto rientrare, e ogni volta gli si fa incontro come un gatto, zoppettando e ruotando la testa come fosse per il rollío di una barca, come solo gli uccelli sanno fare. Non può più volare, ma qui tutto sommato ci sta bene, ha tutto quello che le occorre: un nido, del cibo, un amico, un ruolo. Gigi la saluta, ci parla, qualche volta la insulta perché gli si fa sotto, tra le gambe, mentre lui sta rientrando carico di legni, o di vernici, o di sacchi di iuta. Lo studio si apre dietro una porticina stretta, via Garibaldi, e spalanca un mondo: sculture lignee, mucchi di colore ammassati per anni, forse gli stessi di quella convivenza con l’animale, e poi ancora tele e oggetti da mercatino delle pulci ovunque. Idee accatastate nella dispensa dell’artista per la prossima opera. Una vecchia stufa, con il tubo dei fumi di scarico lungo quanto un antico arco che separa lo spazio interno della saletta, ricavata in un’ala delle soffitte; poi un’altra stanza, quasi sempre chiusa, un magazzino, pieno di lavori, di opere compiute e di bozzetti, di lavori da esporre: forse in galleria. Un poco di carta macerata, qualche giro di calza da donna e una colata di gesso, poi il colore: una nuova scultura ha preso forma. Presto passerà al piano di sotto, quell’opera, a distanza opportuna dai piccoli dispetti della cornacchia, in bella mostra tra gli altri lavori finiti, a decantare, di fronte al camino acceso dal querciolo e dagli scarti dell’edera, in compagnia dei libri, delle coperte di lana lavorate a mano, dei sigari e del whisky e degli affreschi cinquecenteschi, per meditarci sopra ancora un po’, prima di renderla pubblica, di esporla con gli altri al ludibrio di un mondo rurale che poco sa di avanguardie, meno ancora di arte contemporanea e ancora troppo di stagioni che si avvicendano lente ma inesorabili, le une uguali alle altre. Così, anche se alcuni lavori troveranno posto sul soppalco di legno, accanto alle grottesche e ai motivi classicheggianti delle pitture parietali del palazzo, molti di quei lavori torneranno su, di nuovo su per quelle antiche scale, ancora a far visita a quella cornacchia, per essere tramutati, ridipinti, uno strato via l’altro, e opere su opere su di una sola tela, così, senza riposo, senza quiete, senza una fine finita. Quel giorno, rientrando
da una delle sue tante passeggiate alla ricerca di un segnale, di uno
spunto, di un reperto, di una conferma, di un incoraggiamento, Luigi Fabrizi
troverà la sua cornacchia morta, e solo allora deciderà di esporre. Federico |
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