Un paio di anni
fa, un collega, Fabrice Melquiot, mi fece leggere un suo
testo che oggi, a pochi giorni dal suo debutto in
patria, lo ha consacrato, per giudizio unanime della
critica d’oltralpe, come il drammaturgo francese più
interessante delle ultime generazioni. Il testo era “La
Mia Vita di Candela” ed è stato proposto, in Italia,
l’anno scorso, in mise en espace al Festival “Quartieri
dell’Arte”. Quest’opera deliziosa che porta dentro di sé
tutta la storia della commedia francese, iscrivendosi in
una tradizione e rinnovandola radicalmente allo stesso
tempo, mette l’uomo sullo stesso piano degli oggetti e
degli animali; è, in altri termini, una commedia
postumana. Gli uomini, i personaggi che popolano il
testo di Melquiot, si rendono ridicoli ogniqualvolta
come esseri umani, nel loro ruolo di esseri umani,
cercano di mettersi al centro dell’universo e della
scena mentre risultano amabili e commoventi quando
indagano il loro essere oggetto e animale, il loro
essere cyborg e scimmia direbbero forse Toni Negri e
Michael Hardt. Scoprirsi “cose tra le cose, cose più
fragili delle cose” per usare l’espressione di Huellbecq,
rende di nuovo possibile un umanesimo, un umanesimo
pieno di ironia, un umanesimo dopo la morte dell’uomo.
Credo che
“Farfalle”, testo breve di Federico Caramadre prenda
esattamente questa direzione. A prima vista, sul piano
formale, ti può quasi dare l’idea di una riproposta del
teatro simbolista di fine-ottocento, quello che tentava
di affermare l’esistenza di una rete di contatto al di
sotto di quel mucchio di tessere scollate di una vita
mosaico in frantumi. Ma qui, in questo testo, come nella
nostra società, anche se dentro una metafisica diversa,
quelle tessere non sono più scollate nemmeno
apparentemente, non c’è più un dentro e non c’è più un
fuori, tutto è connesso a tutto, ognuno è responsabile.
I personaggi non sono come farfalle, sono proprio
farfalle. Come nella commedia di Fabrice, nel pezzo di
Federico ho sentito le figure meno vicine quando
tentavano di immettersi in un percorso educativo
dell’umanesimo tradizionale e in maggiore simpatia col
lettore/spettatore quando cercavano di ridefinirsi.
Federico vive in
un paesino non molto lontano da Viterbo luogo dove, con
il collega Alberto Bassetti, dirigo il Festival di nuova
drammaturgia “Quartieri dell’Arte”, così come Fabrice
Melquiot abita in un piccolo centro delle alpi francesi.
Le tessere non sono più scollate ed esisteranno sempre
meno luoghi deputati e territori centrali. Mi diverto a
vedere due autori che sono la prova vivente della
deterritorializzazione dell’iniziativa culturale e
all’idea che ci siano giovani scrittori italiani con la
voglia e le potenzialità di entrare dentro un grande
dibattito sullo sviluppo e la direzione del nuovo teatro
di drammaturgia.
Gian Maria Cervo