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- HERMES -


Il racconto originale

Tratto da "Il Mosaico dell’Insofferenza"; 1990

da un'operazione estetica di
Federico Caramadre

panoramica sulle opere di Federico Caramadre

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La casa di latta

Il rifugio di latta di Hermes era fuori mano. Ricordo con nostalgia le ore trascorse di fronte ad un camino acceso discutendo d’amore e d’arte, di politica e sesso, di religione e oppio. Non di rado mi tornano in mente, chiare quanto provocatorie, le immagini di quei momenti vissuti in consonanza, veloci e pensierosi: i toni surreali dei giri notturni con lo stupendo maggiolone cabrio, il lento sorseggiare dal sapore di whisky o cointreau, le interminabili e silenziosissime partite sulla scacchiera dai marmi policromi con i pezzi in ottone e in bronzo, i lamentosi vagiti d’un vento impetuoso che faceva danzare la natura fuori della grande vetrata sul soffitto ai suoni della nona sinfonia che, di buon grado, ascoltavamo a un ottimo volume. E Mozart, l’impareggiabile ed eterno Mozart lasciato in fila tra le sue opere accanto ad altri eterni come lui che vinsero la cupidigia del tempo con le parole. Mucchi di parole ben rilegate accatastate l’una sull’altra: le ballate di Goethe, poesie, libri e racconti di Hesse, paradisi artificiali e fiori del male, da Catullo a Freud, dalle cataste di libri alla sete di conoscenza fino all’impossibile stato di grazia di poter urlare "ho capito, io so".

Hermes non era un gran lavoratore ma non mi chiesi mai, se non oggi, come facesse a mantenersi. Forse non posi mai il quesito alla mia attenzione poiché non ne vedevo il bisogno; allora pensavo che ogni cosa gli fosse dovuta, un tributo alla sua rara intelligenza, un omaggio degli eventi al suo modo di essere. Egli non aveva necessità di avere in quanto era e, per questo, aveva. Non so bene se questa sia una giustificazione che la mia mente architettò per sedare la mia fin troppo scrupolosa coscienza ma so per certo che un consiglio di Hermes, per me e gli altri che frequentavano la sua casa di latta, bastava ad illuminare spirito e speranze. Per nulla al mondo avremmo rinunciato a quelle serate trascorse in compagnia di due parole con il verso giusto, con la traccia che l’alcool lascia nel bicchiere, l’armonia di due corde pizzicate a modo o la scioltezza di quelle mani da ragno che scorrevano sul bianconero del piano e tanti bei silenzi che non avevano bisogno di spiegazioni, fantastici vuoti che non richiedevano d’essere colmati. Magari in quell’atmosfera decadente alcune discontinuità apparivano curiose nella loro incongruenza: si passava spesso dall’ascolto della musica classica ai ritmi uggiosi di un sax febbricitante come, del resto, le attenzioni del momento erano giocate tra D’Annunzio e Dante, dalla Bibbia a Nietszche.

Hermes era solito trascorrere le giornate senza frenesie, non sembrava esservi pensiero alcuno che lo turbasse seriamente. Era capace di trascorrere ore e ore con il suo bel mazzo di carte ascoltando buona musica; spesso sfogliava le stampe di quadri d’autori noti e meno noti nel tentativo, suppongo, di riscoprire tra forme e colori ciò che di sé aveva perso nel tempo. Quello strabiliante senso di quiete e precarietà che regnava tra le sue cose mi affascinava quanto la casa di latta, così fragile eppure così salda e resistente alle ingiurie delle intemperie. Egli non mi parlò mai del come e del perché il rifugio fosse stato costruito, sebbene in quell’unico e accogliente ambiente, fatta eccezione per il grande bagno, tutto sembrava testimoniare una volontà precisa, quasi figlia di una logica sviluppatasi nell’ambito di un razionalismo architettonico paradossalmente tanto razionale da porsi al di fuori degli schemi del comune raziocinio, tanto da incutere timore. Ciò considerando anche le non facili condizioni climatiche cui la zona dove la casa era stata realizzata era sottoposta e i materiali fin troppo deperibili che sostenevano la stabilità di un continuo gioco impostato sul vicendevole sostegno tra equilibri instabili.

L’ambiente regalava qualcosa di fiabesco e questo non faceva che accrescere l’interesse o forse la curiosità che ci spingeva a ritrovarci di sovente tutti insieme nel rifugio e raramente al di fuori di quello.

Della compagnia faceva parte anche Iuri. Al tempo non credevo si potesse pentire delle sue scelte ma non mi rendevo conto che non fosse tagliato per vivere d’improvvisazioni, in un mondo fatto di pura speculazione seguita dall’esigenza di assecondare qualsiasi capriccio, aria di sete scientifica e filosofica nel rispetto di una certa soddisfazione del corpo. Non per nulla egli introdusse nel circolo anche me, un po' per mostrarmi Luca, sua passione, un po' pensando d’avere così una degna spalla che lo sostenesse di fronte alla disarmante dialettica del padrone di casa. In realtà Iuri cercava di sfuggire Hermes, perlomeno inizialmente, specie quando si parlava di sesso o se venivano intavolate discussioni di carattere religioso, sui fondamenti dell’esistenza, sulla morte consapevole e perseguibile come riscatto dal dolore. Si sentiva combattuto interiormente in una lotta tutta sua; ansioso e turbato nel riconoscere le ragioni nelle osservazioni acute di Hermes, peraltro in netto contrasto con la sua educazione. Ma Luca, che aveva intessuto una relazione con Hermes e che fu capace di condurre Iuri ai propri servigi amorosi giusto ai tempi del rifugio, aveva in questa kermesse un ruolo fondamentale: era divenuta il punto di raccordo tra due anime per certi versi molto simili; quel che fece vivere loro d’intensa e feconda amicizia, quasi un amore tra i due affogato nei contrasti e tra le braccia materne e comprensive di Luca.

Ricordo da una sofferta confidenza di Iuri che un giorno, passando tardi da casa di Hermes, aprendo la porta egli vide una scena che a suo dire lo turbò profondamente. Aprire senza bussare era una nostra buona abitudine nella casa di latta, visto che il nostro ospite aborriva le formalità, ma in quella circostanza Iuri fu messo a dura prova. Hermes giaceva nudo, con le gambe divaricate su di una lunga penombra, la schiena poggiata sui gomiti ad inarcare leggermente il petto dinanzi al chiarore del camino acceso e, di fronte, confuso con il crepitio delle frasche al fuoco il ciondolare di una creatura con il corpo accovacciato sui fianchi ed il viso nascosto dalle cosce di Hermes, lunghi capelli neri che gli accarezzavano il basso ventre, efebica natura splendidamente svestita. Hermes si girò sorridente verso l’ingresso con il solito fare lento e accomodante di quando lo si trovava a scrivere o a dipingere. La ragazza alzò il capo chino e volse lo sguardo. Le donne imbarazzavano molto Iuri e in quel frangente Egli si sentì percorso da mille temperature, attraversato da brividi di freddo spezzati violentemente da scosse bollenti. Hermes lo distolse dal suo imbarazzo invitandolo con un cenno ad unirsi a loro. La ragazzi dagli occhi grandi e lucenti fece uno splendido sorriso, tese il braccio magro e l’armoniosa mano dalle dita affusolate e le affilate unghie luccicanti nella sua direzione chiudendo e riaprendo più volte il palmo con le dita scaglionate di modo che invece di risultarne uno ciao ne risultasse un vieni. Iuri, che in quegli occhi aveva colto un lampo simile al malinconico sguardo della ragazza dagli occhi blu verderame, scioccato quanto interdetto, si scusò per il disturbo solo a parer suo causato e, senza dare il tempo di replicare, chiuse la porta dietro di sé e con essa le sensazioni frustranti e contraddittorie che aveva provato nel giro di un minuto o poco più. Decise comunque di non pensarci troppo sebbene l’idea che una bellissima donna, di cui egli non sapeva nulla, avesse voluto accoglierlo nel suo grembo assieme ad un altro senza neppure conoscerlo e senza chiedere tornaconto se non un reciproco scambio di piacere fu destabilizzante e lo emozionò a tal punto che Egli si masturbò per una notte intera. Fino all’alba del giorno seguente, ai ritmi incalzanti d’un martello pneumatico, gli ronzarono per la testa le fotografie di quegli istanti, Hermes, i lunghi capelli, la luce del fuoco, i movimenti morbidi, l’immagine di quel braccio giovane e teso rivolto verso di lui come quello di un piccolo zingaro che nelle vie del centro ti supplica di comprargli una rosa. Iuri non incontrò più quella donna, e sebbene superò con la piena maturità i suoi timori godendo molto di altri corpi, per anni gli tornò in sogno quel braccio teso, quella stupenda mano e quello sguardo con i quali confrontarsi per porre fine alle sue inibizioni, a quegli ossequiosi pensieri volti al senso religioso del dovere, per superare quelle remore e quelle ipocrite schermaglie che per molto caratterizzarono l’iter di ogni sua relazione. Forse Luca rappresentava il primo, unico, vero riscatto delle mancate esperienze di Iuri, grazie alla sua grande carica sensuale e alla sua disinibizione.

A tornare indietro non sono però convinto che Iuri avrebbe potuto comportarsi diversamente, non credo farebbe il grande passo, rinuncerebbe ancora a quel pasto d’amore per avere nel tempo, con gli anni, delle scuse da portare al giudice severo ed attento dei suoi comportamenti, quella parte di sé che sempre condannerà senza presa visione qualsiasi barriera ideologica. Per una settimana Iuri non mise piede nel rifugio trascorrendo quelle giornate come un buon credente che si debba redimere da un qualche peccato. Probabilmente avrebbe veramente dovuto aver paura di gioire, paura del riso, dell’inno al vizio, paura delle arti, del sesso, oppure avrebbe dovuto aver semplicemente paura delle sue paure. In realtà egli nell’atto fisico dell’amore cercava la vita ma vi trovava immancabilmente morte. Vivere nella fine di un rapporto la fine delle emozioni: la morte. Era dunque veramente arte quel profumo deviante con cui deliziavamo circondarci? Per Iuri il periodo fu duro da affrontare, senza peraltro poter evitare il mero e spasmodico insistere di ciò che chiamiamo coscienza e che spesso si presenta sotto forma di scrupolo, uno scrupolo tutto culturale. Quel che ripetutamente egli si riscopriva pensare era l’idea che in realtà il tutto dell’amore si limitava ad un penetrare per poi eiaculare senza che vi fosse uno scambio di profondi affetti, di sentite presenze, una comunicazione in grado di ristabilire i necessari equilibri, gli stessi che sostenevano la casa di latta. Nulla per rincuorare la coscienza e per gettare nel bel mezzo il mostro Amore, coagulo di tutte le ferite. E in quelle ore così pesanti di martirio, oscurate dal continuo pensiero delle sue voglie di peccato, non gli restava che scappare, rinchiudersi in un vittimistico atteggiamento che a nulla porta se non al diretto dialogo con se stessi, un confronto tra i suoi pudori e un orgasmo solitario che come un vento impetuoso e freddo chiudeva le porte della vita dandogli l’illusione di essere un peccatore di seconda scelta, di basso rango. Questo gli consentiva di distrarsi, visto ch’era oramai solito consumare i suoi riti sessuali da solo e senza alcuna premeditazione. E ciò gli costava caro, più d’un’intera giornata di lavoro, e gli lasciava sulla pelle un sensazione amara per non aver soddisfatto le sue più intime pulsioni. Quel surrogato, quella fuga dal sesso all’interno dello stesso gli pesava sul cranio e sugli affetti come una lapide di marmi e ferri grava al suo ospite eterno. Solo l’innamorarsi di Luca gli consentì di superare brillantemente la situazione. La loro relazione concorse in maniera positiva alla soluzione del problema, anche se, fino a poco prima della loro definitiva rottura, anni dopo, a causa di un intenso odore di whisky accompagnato da una catasta di legni scoppiettanti, Iuri rimosse dal ricordo quel lungo minuto consumato sulla soglia del rifugio. Ciò lo spinse ad avventarsi su Luca strappando tutto quel che gli si poneva davanti, calze, stoffe, biancheria, per possederne le carni con la forza. Le carni, quasi come il mangiare la solita bistecca. E il possedere. Dopotutto la carne non si possiede, si consuma. Roba da psicanalisi. In ogni modo Iuri rimase di nuovo interdetto. Era bastato un fugace ricordo.

 

© “La casa di latta”; Federico Caramadre; 1987
(Tratto da “Il Mosaico dell’Insofferenza”; Federico Caramadre Ronconi; 1990)

 

 

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