Sez. Lexis |
Ricerca & Critica: PITTURA © HermesArtStudios |
a cura di Federico Caramadre
"NIENTE AVVIENE PER CASO"
Viaggio nei mondi simbolici di Silvano Moretti
“Thus we play the fools with time,
and the spirit of the wise sit in the clouds and mock us”
“Così giochiamo come folli con il tempo, e gli spiriti dei
saggi siedono fra le nuvole e ridono di noi”
William Shakespeare
La cultura del simbolo non è mai stata tanto
abusata come in un periodo, quello attuale, dove a
causa del grande bluff imposto dalle leggi della comunicazione mediatica, si
sente forte l’esigenza di spingersi oltre le apparenze.
In pittura, le apparenze sono esse stesse modo di essere, poiché la pittura parla con estrema forza in un
solo istante, il primo, quello della percezione d’insieme. Che sia astrazione o
figura, solo in un secondo momento, volendo, ci si potrà concedere il lusso di
una lettura e di una comprensione più approfondite, meno subordinate alla componente emotiva.
Se poi la pittura che abbiamo dinanzi è intrisa di
simboli e simbologie, allora viene il sospetto che abbia paura di aver perso la
sua forza intrinseca, che non abbia più molto da dire, e che voglia entrare nel
“racconto”, sedurre l’osservatore facendo leva sul fascino, ostentatamente
sussurrato, di “significati misteriosi” quanto poco immediatamente percepibili:
un effetto che è la conseguenza dell’utilizzo del segno (qui inteso come
simbolo iconografico). Ma ecco il punto, il nocciolo della questione, la
domanda che ci si dovrebbe poter porre di fronte a quel tipo di
opere: il simbolo è stato utilizzato dall’autore come puro “segno
pittorico” (ed è dunque un fatto estetico che prescinde da oscuri significati e
appartiene ancora alla sfera della pittura), oppure è esso stesso strumento per annunciare una storia non
scritta, bensì “disegnata” da tracce significanti, quasi nascosta allo sguardo,
da decodificare con opera da epigrafista attraverso l’interpretazione di quella
combinazione tutta privata che l’artista crea a suo uso e consumo con i “significati”
(associati più o meno propriamente ai vari simboli), esulando così dal terreno
dell’arte visiva e sconfinando in una curiosa forma di letteratura sottaciuta,
subdola, ma nascosta al ludibrio di una pubblica interpretazione e dunque salva
e affrancata una volta per tutte da possibili critiche sul metodo e sui
contenuti?! Aggiungo: usufruendo appieno di quella regola non scritta secondo
cui “l’artista non deve spiegare la propria opera”.
Davanti al dubbio di trovarsi dinanzi al più grande bluff modaiolo che il mondo delle arti pittoriche
ricordi, Silvano Moretti (1948), potrebbe affogare negli interrogativi, ma il
suo lavoro, col gioco dei vuoti e dei pieni, non solo fuga le incertezze, ma
tenta il rilancio.
Da una parte, il lavoro è sostenuto da una
ampiamente riconosciuta e instancabile attività di ricerca, sempre supportata
da una bella maestría del pennello, qui fin troppo onestamente inutilizzata,
nessun trucco, nessuna adulazione allo sguardo,
tutt’altro, semmai un tentativo “didattico”, quasi propedeutico; dall’altra poggia
invece sull’architrave di una provocazione sottile: l’inversione dei ruoli. Qui,
colmare quei vuoti, quei silenzi, quella "mancanza" di storie, non sta al
pittore, e l’osservatore diventa autore egli stesso.
Nei dieci quadri della serie, oltre a riempire il
vuoto proprio della cornice con segni che si muovono dall’alef ebraico per arrivare a temi arabi (anche nel gusto tutto
estetico dei decorativismi), Moretti suggerisce
all’osservatore di “riempire” il vuoto libero del centro con la propria
immaginazione soggettiva. Una differenza che marca lo stacco
tra la percezione del rapporto che c’è tra spazio e tempo e il suo possibile
ritrovamento, la sua ri-scoperta. Per fare questo, occorrerà leggere tra
i quadri, opere che citano altre opere, che raccontano
di Ebraismo e Islam, che aprono sentieri di indagine sconosciuti, in un'infinità
di percorsi intriganti, equivoci, eroici, e per certi versi ancora da esplorare,
che potrebbero essere affisse, per dirlo in altro modo, in una costruzione di
Rennes Le Chateau presso l’Abate Saunière, che divagano senza una sequenza
cronologica precisa tra cabala, interpretazioni cinquecentesche del mistero
religioso della crocifissione del Cristo e Santo Graal, a servizio di un gioco
intellettuale che stravolge a suo piacimento concetti, simboli e significati,
significando, infine, solo un viaggio privatissimo dell’artista. Un viaggio che
inizia negli anni ’70, con la stesura dell’opera “La
Madonna della Vittoria”, in cui per la prima volta Moretti utilizzerà dei
simboli, e che vorrebbe concludersi in un cerchio con
questa serie del 2003.
Nell’affabulazione significante di vuoti e di
pieni, costruita tra composizioni formali la cui eco cromatica impatta una immediata sensazione di civiltà remote, non tanto per
connotazioni geografiche e neppure temporali, quanto sintesi di un altrove
talmente prossimo a noi da non essere percepito, perde corpo la “proprietà
sociologica” di quei segni, che diventano un fatto univoco, universale. In
questa sorta di “esperanto” pittorico, nel racconto fantasioso e personale di
Silvano Moretti, si intrecciano da sempre modi e tipi
spirituali a cavallo di civiltà rivelate dalle loro culture religiose. Civiltà
strutturate su alcune vicende che restituiscono intatta l’analogia del mistero,
nella valenza plurima dell’interpretazione di quei segni nati dall’impasto tra
sacro e profano, risultato onirico di una mistura tra il popolare e
l’intellettuale, come sulla tavolozza dei temi di un pittore alla continua
ricerca di forme nuove per i suoi pennelli.
Federico Caramadre
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